L’industria italiana della moda affonda le proprie radici in una sola parola e quella è artigianalità.
Questa è la risposta che rimbalza, forte e chiaro, dal mercato stesso, nonostante la battuta d’arresto che proviene da due fra i più importanti mercati per il settore della moda made in Italy, vale a dire quello cinese e quello tedesco. Eppure il made in Italy è di per sé un brand che si vende e piace nel mondo. Questo perché ha delle caratteristiche che ancora oggi, ancora nel mondo tecnologico e meccanizzato del nuovo millennio, continuano ad essere uniche e a dare un valore aggiunto al prodotto moda. Sono l’artigianalità e la creatività che rendono un capo di abbigliamento o una scarpa italiana ancora tanto attraente sul mercato internazionale.
La cura nel prodotto made in Italy
Se artigianalità significa cura ai dettagli, creatività non vuol dire solo come viene pensato il modello ma soprattutto come viene poi eseguito, con intelligenza. È l’intelligenza il fattore cruciale che distingue una scarpa creata artigianalmente da una fatta in serie. Solo la perizia artigiana ha l’arguzia di capire il materiale che sta toccando, che sta usando, e può risolvere quei problemi che possono sorgere all’interno della catena di montaggio.
Quindi la vera sfida del mercato della moda, oggi, è salvaguardare le manualità e le competenze che hanno una storia plurigenerazionale e che vanno scomparendo. I curricula che arrivano ad un’azienda del settore moda sono, per i nove decimi, di ragazzi che hanno una laurea in scienze dell’informazione o in altre università del settore servizi, e solo uno su dieci ha a che fare con il lavoro manuale.
L’esempio dell’industria calzaturiera
Questo assume maggior valore ancora all’interno di un’azienda calzaturiera dove certe maestranze sono quasi in via d’estinzione e l’unico modo per sostituirle è quello di formare ex novo nuovo personale che non può essere considerato autonomo ed efficiente, nei termini di quell’intelligenza di cui si diceva prima, se non nel termine, decisamente lungo, di due anni.
Due anni di investimenti per un’azienda per poter formare figure come quelle dell’orlatrice o del fresatore, figure che rischiano l’estinzione, con l’arrivo della pensione per i manovali più esperti. Non a caso, è frequente nel settore moda che venga fatta la corte, da azienda ad azienda, a quelle che sono le maestranze più ricercate e più rare. Una ricamatrice, in un’azienda di alta moda, è preziosa, molto più di un macchinario. Basti pensare al caso delle scarpe Soldini, dove tutta la produzione viene eseguita a mano e dove oltre la metà del costo della scarpa è dettato proprio dal costo del lavoratore. Quindi i lavoratori sono al contempo sia la risorsa più importante del comparto produttivo che la maggiore fonte di spesa. Fare quindi un made in Italy artigiano è più che mai una scelta coraggiosa, in considerazione di quanto la decentralizzazione della produzione abbasserebbe il costo dei lavoratori.
Making IT
La scuola Holden ha presentato, a novembre 2019, uno spaccato dell’industria del made in Italy, ritagliata attraverso venticinque interviste ad industriali italiani, nel libro “Making IT – Fitting the Future”. Da questo testo emerge come delle 65.000 imprese che lavorano nel settore della moda tessile e calzaturiera, la maggior parte abbiano una storia ed un sapere che si tramandano da più generazioni.
Altro dato interessante ad emergere da queste interviste è la filiera integrata, che valorizza il territorio come ulteriore punto di forza del made in Italy. All’estero l’acquirente sa, infatti, di comprare non solo un prodotto confezionato artigianalmente, ma anche che può fare affidamento su un’alta qualità delle materie prime utilizzate.
Il bilancio finale
Il grande assente, fra le pagine di “Making IT – Fitting the Future” è proprio lo Stato, uno Stato Italiano che ricava da questo settore un sostegno al PIL italiano di almeno 28 miliardi e che non incentiva, non difende e non valorizza la grande cultura di cui solo il privato, con le sue aziende, è l’unico custode.